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La forza della preghiera è reale, l’ho verificato con mio figlio prematuro

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Shutterstock | Naypong Studio

Pilar Velilla Flores - pubblicato il 18/11/21

È stato uno dei momenti più difficili della mia vita. Avevo appena partorito il mio quarto figlio e tutto si è complicato

Vorrei raccontarvi l’esperienza autentica che ho vissuto quando attraversavo uno dei momenti più difficili della mia vita, percependo che molta gente in quel frangente stava pregando per me.

A volte possiamo pensare che pregare di fronte a un problema non serva a niente. Può sembrare che siamo statici e inerti davanti a un fatto che richiederebbe dinamismo e azione, ma se la pensiamo così ci sbagliamo di grosso.

Senza volerlo, sottovalutiamo l’aiuto del Signore, o ci sembra che le nostre complicazioni siano una sciocchezza. “Nessuno può risolverlo!” “Perché perde tempo con me?” “Sicuramente ci sono persone che soffrono più di me…”

E quando sono gli altri a soffrire, spesso non sappiamo come aiutare, perché ci sembra di intrometterci nella vita privata delle persone, o pensiamo egoisticamente che non siano affari nostri e che sia meglio non immischiarsi.

C’è però qualcosa che possiamo fare quando umanamente parlando non resta altro, ed è altrettanto o più efficace di qualsiasi azione umana: pregare per alleviare il peso, per spianare la strada.

Vorrei raccontarvi la mia esperienza personale, che vi farà capire che serve, e molto più di quanto immaginiate.

La mia esperienza con la forza della preghiera

Tre anni fa ho dato alla luce il mio figlio minore. È andato tutto bene, e il parto cesareo è stato meraviglioso, perché per la prima volta il centro medico ha lasciato entrare mio marito.

Mio figlio ha anticipato la nascita ed è arrivato alla 36ma settimana, gli mancavano 7 giorni per non essere considerato prematuro, per cui ha dovuto trascorrere dei giorni in incubatrice, senza altre complicazioni.

Quella settimana in cui sono rimasta ricoverata anch’io, sono andata su e già nell’ospedale su una sedia a rotelle per poter allattare il piccolo. In quel momento non provavo dolore per la ferita del cesareo, non c’era tempo per le lamentele, il mio bambino era la cosa più importante e dovevo essere forte. Era il nostro momento.

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Alla fine della 37ma settimana, siamo andati entrambi a casa.

HOSPITAL

Pochi giorni dopo le dimissioni, però, ho iniziato a sentirmi male. Provavo una tristezza che non era normale. Non si trattava del famoso babyblues, era qualcosa di più profondo. Mi vedevo incapace di prendermi cura del mio bambino. Ho avuto la depressione post-partum.

Mi sono messa nelle mani di un buon medico, che vista la gravità della mia situazione mi ha raccomandato di entrare in una buona clinica a circa 500 km da casa mia, in cui sarei stata curata e assistita.

Ciò implicava il fatto di separarmi dal mio bambino appena nato. È stata una decisione molto difficile.

Sono rimasta in clinica circa 6 settimane, il tempo sufficiente perché i farmaci facessero effetto e riprendessi le forze.

Mentre ero in ospedale, ho ricevuto una telefonata in cui mi dicevano che mio figlio doveva essere ricoverato per una forma di bronchiolite, e così madre e figlio eravamo a chilometri di distanza l’una dall’altro soffrendo in silenzio.

Il momento peggiore della mia vita

Ogni giorno i medici mi mettevano al corrente delle condizioni del mio bambino.

Un giorno ci sono state delle cattive notizie. Il bambino doveva essere ricoverato in terapaia intensiva perché era peggiorato.

Stare lontana da mio marito e dai miei figli era già abbastanza difficile, senza dover aggiungere l’ingresso in terapia intensiva del mio piccolo.

Ho sentito che mi cadeva addosso il mondo. Cosa ci facevo così lontano? Dov’era il mio posto? Cosa dovevo fare? Ero a metà della cura, e se fossi tornata i miei sintomi sarebbero probabilmente peggiorati e avrei dovuto ricominciare da zero.

WOMAN PRAY,

Ovviamente ho parlato con mio marito e con i medici, e alla fine abbiamo deciso che la cosa migliore era restare in clinica. Alla fin fine, il bambino era in buone mani, e c’erano tanti familiari che si prendevano cura di tutto.

Il mio dovere era rimanere lì, anche se mi costava. In terapia intensiva, poi, non erano neanche sempre permesse le visite.

In quelle circostanze cosa si poteva fare? Solo una cosa: pregare.

Non so come spiegarvelo, ma nei momenti peggiori non mi sono abbattuta. Avrei dovuto essere nervosa e alterata, e tuttavia ero serena e tranquilla.

Poi ho saputo che in quegli istanti molte persone avevano pregato per me. Mi hanno fatto giungere la loro consolazione in mille modi – attraverso un Rosario, una preghiera, una Messa…

Ho toccato con mano la forza della preghiera. La mia mente mi diceva “Dovresti essere triste, perché quello che ti sta accadendo è molto brutto”, e invece avevo una forza per andare avanti che posso assicurarvi non era mia.

Avevo l’anima in pace. Era qualcosa di soprannaturale.

Da quel giorno ho imparato a non gettare la spugna di fronte a una situazione difficile. Si può sempre fare qualcosa di più, anche solo pregare. Aiuta davvero in entrambe le direzioni: a chi soffre dà la forza per affrontare il suo problema, e aiuta chi prega perché lo tiene concentrato su ciò che conta davvero, come essere vicino a Dio e al prossimo.

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